A tre mesi dal Salone del Mobile di Milano, assorbita l’onda d’urto della sovrabbondanza di prodotti-eventi-brand e di visitatori, facciamo il punto sulla situazione dell’industria dell’arredamento in Italia (ma non solo), e vediamo qualche possibile sviluppo futuro, senza nessuna pretesa di esaustività. Come confermato da Federmobili, degli oltre 372.000 operatori che hanno avuto accesso al Salone, circa 123.000 erano italiani, un dato in aumento, che conferma la leggera ripresa in atto in Italia.
Dai dati forniti da Federlegno Arredo, infatti, risulta che nel 2015 il macrosistema arredamento ha registrato un fatturato di 24.924 miliardi di euro, di cui il 50% viene realizzato grazie all’export. Il 2015 ha visto anche un aumento dell’export del 6,1%; le imprese alla fine del 2015 erano 30.943, con 181.327 occupati.
Un’industria in cambiamento
Sfogliando a ritroso i dati degli ultimi 10 anni, è facile vedere che dal 2007 – ultimo anno in cui si registrò un incremento di fatturato, da 23 a oltre a 26 miliardi – al 2014, la produzione di arredamento in Italia non ha fatto altro che calare, e con essa sono diminuiti numero di imprese e numero di addetti. Per fortuna, l’export è salito dal 46 fino al 57% (adesso si attesta di poco sopra il 50%), ma questa crescita non è bastata a compensare la drastica riduzione del mercato domestico. Il consumo apparente di mobili nel mercato domestico si è infatti ridotto dagli oltre 17 miliardi del 2007 ai 10 miliardi circa del 2015. E le imprese hanno lasciato sul campo oltre 50 mila lavoratori, per un totale di oltre 5.000 imprese in meno. Difficile parlare solo di crisi, è evidente che si tratta di un cambio epocale.
Un cambio epocale che sta influenzando anche lo schema di funzionamento dell’industria dell’arredo di design, uno schema tutto sommato semplice che funzionava dal secondo dopoguerra: lo schema designer-industria-distribuzione-vendita-royalties.
Nato subito dopo la seconda Guerra Mondiale, quando l’Italia era nel pieno della ricostruzione, e c’era bisogno di tutto, il sistema di pagamento a royalties in percentuale sul venduto funzionava, e, dato che c’erano guadagni abbondanti per tutti, nessuno aveva da lamentarsi. In anni più recenti, anche se magari i guadagni cominciavano ad assottigliarsi, l’esposizione mediatica di un prodotto, magari al Salone del Mobile di Milano, poteva compensare la mancanza di una ricompensa monetaria per il designer, con una promessa di maggiori commesse per il futuro grazie alla visibilità.
Poi, la Grande Recessione ha decretato il trionfo di produzioni di costo sempre più basso, ha ridefinito le dimensioni del mercato, riducendo drasticamente la dimensione del mercato interno come spiegato, spingendo la produzione italiana sempre più verso la fascia alta, e riducendo ulteriormente volumi di vendita e possibilità di guadagni per i designer di questo settore.
I designer imprenditori e l’ecommerce
È così che diversi progettisti, affermati e non, hanno cominciato ad affrontare la questione, puntando sulle proprie capacità imprenditoriali. È un fenomeno abbastanza recente, che però vede già alcuni casi di successo (alcuni anche di grande successo).
Si va dal designer che disegna e affida la produzione a terzi, trasformando il proprio nome in un brand, al designer che coinvolge altri designer, agendo da editore, e occupandosi anche della distribuzione e della vendita. Per il momento si tratta per lo più di oggetti o pezzi singoli, quali sedie o lampade, ma è comunque uno sviluppo da considerare. Inoltre, alcuni di loro stanno sperimentando nuovi modelli di business, per superare lo schema produzione-vendita-royalties, cercando di accorciare la filiera, favorendo così possibilità di guadagno maggiore per i designer.
Smaller Objects è nata su iniziativa dei designer svedesi Claesson Koivisto Rune. Come dice il nome, propone soprattutto piccoli oggetti per la casa, disegnati da vari designer. La novità è nel modello di business, diverso da quello tradizionale. Smaller Objects infatti si propone come una piattaforma per la vendita – gli oggetti ovviamente devono avere le caratteristiche giuste per rientrare nel progetto – e i designer seguono direttamente la produzione. Smaller Objects riconosce ai designer il 75% del prezzo di vendita, contro le piccole percentuali del modello usuale di pagamento a royalties. È indubbio però che la gestione di una produzione così strutturata richiede un impegno di tipo diverso da parte dei designer, a cui viene richiesto di impegnarsi attivamente anche come imprenditori. Il modello, come spiega Marten Claesson, si ispira alla sharing economy.
Un modello “che rispetta la dimensione artigianale” e coinvolge il designer come editore e imprenditore è anche Something Good, iniziativa di Giorgio Biscaro, Zaven e Matteo Zorzenoni. Something Good è una piattaforma che unisce designer e aziende italiane, per produrre accessori e oggetti di grande qualità, in piccole quantità. La quantità naturalmente può variare, ma la filosofia del progetto è nel produrre oggetti in quantità limitate, per mantenere la qualità elevata.
Accanto alla ricerca di nuovi modelli imprenditoriali, si è presentata la necessità di confrontarsi con i nuovi mercati, sia come nuove prospettive per la vendita, sia come concorrenti invadenti e troppo competitivi, grazie a legislazioni sul lavoro decisamente meno restrittive, e costi di produzione molto più bassi. Non dimenticando le possibilità offerte dall’e-commerce, ancorché certamente non semplice da affrontare.
Qeeboo prende spunto dalla considerazione di tutti questi aspetti, e dall’esperienza imprenditoriale e internazionale di Stefano Giovannoni, designer di fama che ha spaziato in vari campi di attività e tipologie di prodotto. Forte della sua lunga e approfondita esperienza, Giovannoni nel 2015 ha avuto l’idea di progettare una serie di pezzi di arredamento – sedie, poltrone, lampade, accessori – interamente in plastica, disegnati da alcuni designer, tra cui Marcel Wanders, Nika Zupanc, Richard Hutten, Andrea Branzi, da produrre con tecniche industriali avanzate. Grazie a una partnership con una società di Hong Kong, e alla vendita attraverso il proprio sito o attraverso piattaforme dedicate, i prodotti avranno prezzi decisamente contenuti, e abbordabili per molte più persone. Così, come sostiene Andrea Branzi, si può realizzare un design democratico.
Tra i designer che hanno trasformato il loro nome in un brand, con un certo successo, possiamo citare anche l’inglese Lee Broom, l’italiano Giampaolo Benedini, che sta lavorando a una collezione di lampade e complementi per la vendita on line, Sebastian Wrong, che ha messo a punto una nuova collezione di luci, sviluppata con la danese Hay, e naturalmente Tom Dixon, che ormai è un’azienda consolidata.
La nuova frontiera: l’infanzia
A caccia di nuovi clienti, cosa può esserci di meglio che catturare l’attenzione di coloro che saranno futuri consumatori di arredamento e design? È così che diverse aziende hanno messo appunto collezioni dedicate ai bambini. La prima è stata Magis, che già dal 2004 ha sviluppato la linea Me Too, una linea di arredamento interamente dedicata ai bambini, progettata da designer internazionali con la collaborazione di pedagoghi e tecnici specializzati nell’infanzia. Ma quest’anno anche Kartell ha presentato una serie di prodotti dedicati ai bambini, che vanno da una versione “in miniatura” e con colori e decori speciali, di prodotti già presenti nel catalogo, a giochi disegnati appositamente e realizzati con la filosofia Kartell, come i cavalli a dondolo di Nendo, o le automobiline di Piero Lissoni. Versioni in miniatura di icone del design sono proposte anche da Vitra, con la Panton Junior chair.
Aziende in cerca di una (nuova) identità
In un clima di cambiamento così diffuso, anche le aziende storiche, i brand consolidati, sono alla ricerca di rinnovamento e di una nuova identità. Due tra le più note e prestigiose, hanno fatto la scelta di nominare due designer e architetti internazionali, di grande fama, come art director.
Cassina, già dallo scorso mese di ottobre, ha designato Patricia Urquiola come art director, e direttore creativo del Gruppo Poltrona Frau, collaborando direttamente anche con Giulio Cappellini, all’art direction dell’azienda omonima. Oltre a occuparsi della ridefinizione dei prodotti, l’incarico di Patricia Urquiola comprende anche il progetto e il ridisegno degli showroom nel mondo.
Scelta analoga – anche se con un personaggio totalmente diverso – è quella di Molteni & C., che ha scelto l’architetto belga Vincent Van Duysen come art director. Un forte imprinting nord-europeo, un rigore minimalista caratterizzano i progetti dell’architetto-designer, che si occuperà di coordinare l’immagine e il concept retail per il brand internazionale. Oltre a disegnare naturalmente i prodotti, tra cui il nuovo divano modulare Paul, le madie Quinaten e il tavolo Jan. La visione di un architetto rappresenterà un interessante sviluppo per l’azienda brianzola, che ha nel suo DNA storici legami con grandi nomi dell’architettura, come Tobia Scarpa, Aldo Rossi, Luca Meda.