“L’anno scorso, ha esordito Sangalli, concludevo la mia relazione, ricordando la prima parte dell’articolo 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Ne traevo la richiesta di un’Europa e di un’Italia “dalla parte” delle ragioni dell’economia reale, delle ragioni delle imprese e del lavoro.
Un anno è trascorso, ma – come è a tutti evidente – la richiesta è, oggi, ancora più valida ed urgente. Del resto, lo ha detto bene il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, sottolineando che la disoccupazione “è l’incubo di questo tempo” e che “se non ci sono risposte non c’è credibilità della politica e delle istituzioni europee”.
Parole sacrosante. Perché un anno è appunto trascorso ma intanto, per quel che riguarda il nostro Paese, si sono fatti ben sette i trimestri consecutivi di caduta del prodotto interno lordo.
Mentre, al primo trimestre di quest’anno, la disoccupazione è cresciuta al 12,8%, quella giovanile ha raggiunto la quota del 41,9% e sono divenuti ben 2,2 milioni i giovani italiani che non studiano, né lavorano: un nostro drammatico record europeo.
Inutile girarci intorno: senza un cambiamento profondo delle politiche, in Europa e in Italia, non se ne esce.
Non se ne esce in Europa, se il rilancio del suo progetto politico, secondo la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa, non supera la monocultura dell’austerità e riconosce che non vi è vera stabilità senza crescita. Non se ne esce in Italia, perché anche l’ultimo Documento di economia e finanza – l’ultimo atto del Governo Monti – riconosce che, a politiche invariate, le entrate e la spesa corrente sono ancora destinate a crescere, mentre il prodotto interno e la disoccupazione tornerebbero ai livelli del 2007 soltanto nel 2019 (per quanto riguarda il PIL) e nel 2020 (per quanto riguarda la disoccupazione). Con il rischio – per dirla con la Corte dei Conti – di un “cortocircuito tra obiettivi di finanza pubblica, perseguiti attraverso aumenti delle entrate, e tenuta del quadro economico”.
Così stanno le cose.
E, stando così le cose, la missione fondamentale del “Governo al servizio dell’Italia e dell’Europa” – come lo ha definito il Presidente del Consiglio – sembra a noi chiarissima: agire con tempestività e agire in profondità.
Agire con tempestività: per dare risposte alle tante emergenze di un’Italia dove l’area del disagio occupazionale riguarda ormai 9 milioni di persone, dove i consumi sono tornati ai livelli del 2000 e gli investimenti pubblici a quelli del 2003 e dove – già solo nel primo trimestre di quest’anno – hanno chiuso i battenti più di 40 mila imprese.
Ma agire anche in profondità: in Europa e in Italia, serve davvero un Patto di stabilità più “intelligente”. Intelligente perché consapevole che senza crescita non vi è uscita dalla recessione e che, senza uscita dalla recessione, ovviamente, non vi è neppure stabilità delle finanze pubbliche.
Con grandi sacrifici – fatti dalle famiglie, dai lavoratori e dalle imprese – siamo riusciti a chiudere la procedura di infrazione in sede europea. Bisogna ora procedere con una contrattazione serrata, a livello europeo, per ottenere più margine di manovra a favore degli investimenti pubblici qualificati e per il rilancio degli investimenti privati.
Per esempio, penso allo sblocco del cofinanziamento di parte nazionale a fronte dei fondi strutturali europei. Questo consentirebbe di mettere in campo 30 miliardi di euro; risorse preziose anche per il nostro Mezzogiorno, dove il reddito pro capite è ormai inferiore a quello della Grecia e il 40% delle famiglie è a rischio povertà, come ha ricordato il Censis.
Se dunque il Nord è sull’orlo del baratro, il tonfo del Mezzogiorno è invece una realtà già conclamata e conclamata da tempo.
Quel che però più conta è che – al Nord, al Centro, al Sud – si contrasta la caduta e si risale la china, soltanto tenendo unita – più unita – l’Italia.
Quanto al nostro Patto di stabilità interno, è tempo di una sua compiuta revisione: per mobilitare anche gli investimenti degli enti locali e per procedere nell’azione di sblocco del pagamento dei crediti delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
L’obiettivo del pagamento di questi crediti per quaranta miliardi, tra il 2013 e il 2014, va assolutamente conseguito e va confermato l’impegno all’avvio di una seconda fase.
Una seconda fase che consenta di procedere al compiuto pagamento – e si tratta ancora di decine di miliardi – dell’intero stock storico di questi crediti, anche attraverso il concorso della Cassa Depositi e Prestiti.
È un punto fondamentale: sarebbe intollerabile vedere ancora che, a fronte dell’efficienza dei meccanismi di riscossione, le pubbliche amministrazioni risultano inaffidabili nel pagare quanto dovuto!
E sarebbe intollerabile anche per la liquidità delle imprese, messe duramente alla prova da una stretta creditizia che permane e anzi si aggrava.
Come se non bastasse, in Italia, i servizi bancari sono più cari che negli altri Paesi europei. Una ragione in più per affrontare finalmente anche la riduzione dei costi che gravano sulla moneta elettronica.
Una simile stretta creditizia merita davvero di essere assunta come una priorità dell’Unione, facendo anzitutto avanzare l’Unione Interbancaria.
Intanto, per quel che riguarda il nostro Paese, la risposta alla stretta creditizia – come ha ricordato il Ministro Zanonato – richiede anche il potenziamento del ruolo del Fondo centrale di garanzia e del sistema dei consorzi fidi, oltre che la facilitazione del ricorso all’emissione di obbligazioni da parte delle piccole e medie imprese.
Il tutto va fatto – e qui torniamo all’“intelligenza” del Patto europeo – nel quadro di un’Unione coesa e convinta del fatto che non c’è contrasto della recessione e impegno per l’occupazione senza una più robusta domanda interna.
Se questa coesione vi sia, lo capiremo presto.
Lo capiremo già dai risultati del Consiglio europeo della fine del mese e dalla concretezza delle misure annunciate per l’occupazione dei giovani.
È questo quanto chiediamo all’Italia e all’Europa: misure concrete e misure robuste e non “pannicelli caldi”.
Naturalmente, l’Italia deve continuare a fare la sua parte.
Anche perché i margini di manovra restano stretti e le “raccomandazioni” di Bruxelles pesano.
Il tempo del Governo “di servizio” sia allora l’occasione per far avanzare le riforme.
L’agenda è notissima: nota da troppo tempo, ma ancora largamente inevasa.
Ed è un’agenda che parla di fisco: della necessità cioè di ridurre la pressione fiscale che in questi anni, come tutti sappiamo, ha raggiunto livelli record.
E si può ridurre la pressione fiscale solo bonificando la spesa pubblica, rivedendo il perimetro stesso della funzione pubblica, adottando la metodologia dei costi e dei fabbisogni standard e avanzando nell’azione di contrasto e recupero di evasione ed elusione, mettendone a frutto i risultati a vantaggio dei contribuenti in regola.
Insieme, servono dismissioni decise di patrimonio immobiliare pubblico: per abbattere il debito e per liberare risorse preziose per la crescita.
E’ un’agenda – quella che ricordavo – che parla poi di riforma della pubblica amministrazione, di liberalizzazioni ancora necessarie e di semplificazioni più che mai necessarie.
Più che mai necessarie visto che – come ricorda l’indagine CER-Confcommercio – far fronte agli adempimenti fiscali costa alle imprese ogni anno 10 miliardi di euro: quasi il 50% in più rispetto alla media dell’Unione.
L’agenda cui ci riferiamo parla ancora di lavoro.
Il terziario di mercato è stato l’unico grande settore capace di creare occupazione. Abbiamo tutte le carte in regola per continuare a crescere.
Bisogna, però, agire tempestivamente e agire in profondità.
L’Italia – è vero ed è un bene – dispone di una ancora solida base manifatturiera e si mostra capace di buoni risultati sul versante dell’export.
Ma l’Italia è anche un’economia avanzata, in cui già oggi l’area dei servizi di mercato – servizi alle persone ed alle imprese, commercio e turismo, trasporti e logistica – concorre alla formazione del valore aggiunto e dell’occupazione in misura superiore al 40% del totale.
Questo è un bene: tanto che l’economia dei servizi di mercato è l’unico settore che è stato capace negli ultimi 10 anni di creare qualcosa come 900 mila posti di lavoro.
Così come è pur vero che è la domanda interna – tra consumi e investimenti – ad alimentare per un buon 80%, la costruzione del nostro prodotto interno.
Così stanno le cose.
Semplicemente allora vorremmo che si prendesse atto di questi dati di realtà e se ne traesse la logica e fondamentale conseguenza.
La conseguenza è che occorre la capacità di mettere in campo politiche e scelte, che rafforzino produttività e competitività di tutto il nostro sistema imprenditoriale.
Perché una solida base manifatturiera giova al sistema dei servizi, così come un efficiente sistema dei servizi giova al sistema manifatturiero.
Perché tornare a crescere significa tenere insieme dinamicità dell’export e tonicità della domanda interna; tenere insieme politica industriale e politica per i servizi attraverso processi diffusi d’innovazione – organizzativa e tecnologica – che si facciano motore di produttività aggiuntiva.
Questo è il “nocciolo duro” dell’economic compact che serve: in Europa come in Italia.
Economic compact, allora: ne fa parte integrante la valorizzazione della risorsa turismo e del “combinato disposto” tra turismo e cultura, che merita, anche sul piano della governance, di essere ascritto tra le grandi questioni del sistema-Paese.
Perché – è vero – il nostro turismo genera oggi circa il 9% del Pil italiano e avrebbe tutte le potenzialità per raddoppiare il suo contributo. Ed è vero che siamo quinti nella classifica mondiale degli arrivi internazionali ma potremmo tranquillamente ambire al podio.
Ma non si può certamente pensare di fare tutto questo se sul turismo italiano non si investe seriamente. Perché il turismo non è un campo d’azione residuale che, grazie alla storia e alla natura del Paese, può vivere “di rendita”. O, dove al peggio, calare dall’alto provvedimenti come la tassa di soggiorno, o come misure in materia di concessione o canoni demaniali che rischiano di mettere in ginocchio il nostro turismo balneare.
Il turismo è una delle priorità italiane e deve essere pensato “per primo” su ogni politica che si decide di fare.
Ancora, economic compact: ne fa parte integrante la costruzione delle filiere dell’economia digitale e di un’economia verde che concorra all’abbattimento della fattura energetica italiana. Ne fanno parte gli investimenti per colmare le inefficienze del sistema dei trasporti e della logistica, che sono costate al nostro Paese 24 miliardi di Pil negli ultimi 12 anni.
Certo, sappiamo bene – come ha detto il Governatore Visco – che le riforme “non possono essere chieste sempre a chi è altro da noi”.
Certo chi fa impresa e le associazioni imprenditoriali sanno di dovere fare la propria parte per l’avanzamento operativo di queste riforme.
Sanno che sarà comunque necessaria la massima sobrietà nel ricorso alla leva della finanza pubblica.
Ma sanno anche che, per l’avanzamento delle riforme, il ruolo di una buona politica resta imprescindibile.
Lo abbiamo detto in occasione dell’Assemblea di Rete Imprese Italia: “adesso tocca a voi”. Tocca al Parlamento, al Governo, alla politica. Tocca a voi perché le imprese, da sole, non ce la fanno più. Adesso tocca a voi perché le imprese, gli imprenditori e i lavoratori, hanno fatto davvero tutto quello che dovevano, e soprattutto potevano, fare. E anche di più.